Io ho un problema. Forse più di uno ma questo è evidentemente uno di quelli che non influiscono enormemente sulla vita delle persone, niente con cui non si possa convivere insomma, è soltanto un problema di parole.
Un fastidio che non mi lascia godere ingenuamente di tutto quello che la vita sociale e culturale ha di bello e di buono da propormi.
Nella trasmissione Il Ruggito del Consiglio su Radio 2 qualche tempo fa c’era un personaggio comico che mi faceva ridere perché lo sentivo e lo sento tutt’ora molto vicino all’incapacità di esaltarmi per cose solitamente bramate dal resto dell’umanità tutta.
La comica in questione si ritrovava protagonista di avventure apparentemente meravigliose per poi abbandonare tutto l’entusiasmo in un “..si vabbè ma alla fine che hai fatto!“
È quello che succede spesso anche a me. Aspetto sempre di trovare qualcosa che mi stupisca, partecipo agli eventi presentati come qualcosa di eccezionale, fiduciosa di poter provare quel sussulto emozionale che invece puntualmente viene disatteso.
È un problema di parole.
La colpa risiede nelle parabole letterarie. Parole vendute con attenzione e ricerca maniacale che ha nel marketing il suo più grande alleato, un trailer ben montato spesso non corrisponde alla bellezza del film che si propone di promuovere.
Così le parole fanno salti incredibili, allitterazioni degne di nota che restano nell’aria, inconsistenti e di certo non susseguite dalla consistenza reale di ciò che si propongono di promuovere.
Dovevo capirlo il giorno in cui ho imparato il significato di happy per gli inglesi.
Le parole sono importanti e se continuamo a usarle senza cognizione di causa allora abbiamo tutti un grosso problema.